Quartieri che si riuniscono

*Liberamente ispirato ai racconti di Paola Fagnola
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« Il sedile di dietro della macchina di mamma ha un odore forte, sa di gomma e di benzina. Mi ci accoccolo un po’, mentre ancora assonnata ripasso la lezione d’inglese. È una giornata di sole velato ma… “I am, you are… “ mi distraggo un attimo e diventa quasi buio. Le mura di cinta delle fabbriche formano una gola stretta alta e impenetrabile, senza finestre, tutta di cemento. Dallo spicchio di cielo che fende il grigio, improvvisamente arriva un raggio accecante di sole… La città si risveglia, ripartono i motori dei macchinari nelle fabbriche, con il loro rumore metallico e ripetitivo, familiare per me che sono cresciuta al centro dell’area industriale di Torino. Borgo Vittoria è come una roccaforte, stretta tra alti confini, tutto sembra iniziare e finire nel suo perimetro invalicabile. Mamma, però, conosce bene le scorciatoie per evadere e raggiungere la scuola oltre la ferrovia. Siamo di nuovo in ritardo, ma anche stamattina speriamo scatti il rosso per rimanere sotto il ponte e aspettare che il treno passi sulle nostre teste. Il campanello di avvertimento fa salire l’attesa, ci guardiamo mentre le rotaie stridono e poi ecco il gran fracasso, che si confonde con le nostre risate. »

Magari erano simili a queste le sensazioni di Paola da bambina, che ha iniziato ad affezionarsi al paesaggio industriale sviluppatosi intorno alla linea Torino – Ceres, prima ancora che ai parchi o alle architetture tirate a lucido del centro. Le cime delle fabbriche erano il primo segnale di arrivo a Torino, guardando dal finestrino del treno, quando si rientrava dalle vacanze. La ferrovia era nata con l’idea di agevolare il trasporto merci, da Torino Porta Milano e Porta Palazzo, passando per l’aeroporto fino a Ceres. Alla fine degli anni Ottanta si è poi progressivamente passati ai convogli passeggeri, finché le grandi lavorazioni hanno iniziato a chiudere una alla volta e quell’infilata di rotaie è rimasta lì nel mezzo, come un grande drago disteso a tenere divise due città. Ce n’era una fatta dei profumi delle sale da tè, della luce fioca dei lampioni all’uscita dei teatri e della storia raccontata dai monumenti equestri, con le strade che vivevano nelle passeggiate della domenica all’ombra degli alberi secolari. L’altra, invece, non si fermava quasi mai, era attraversata dai treni che scorrevano troppo veloci per afferrare le storie che portavano con sé, illuminate dalle luci al neon degli stabilimenti che si accendevano col loro confortante sfarfallio, mentre i bambini mangiavano coni gelato giganti all’uscita di scuola e la vita sociale girava intorno agli oratori. In settimana, piazza della Vittoria si rivestiva dei colori del mercato rionale e lanciando un’occhiata fugace alle vetrine dei negozi in via Chiesa della Salute, si tornava a ridosso dei grandi fabbricati su via Stradella, pregna per decenni dell’odore di cuoio delle Concerie Italiane Riunite.

Chi non ha vissuto quotidianamente il quartiere strizzato tra Barriera di Milano, Madonna di Campagna e San Donato, attraversando i vialoni ad alta percorrenza, forse non riuscirà a cogliere da subito l’atmosfera di borgo che vi si è sempre respirata all’ombra degli alti muraglioni. Poi improvvisamente, i lavori d’interramento dei binari ferroviari, a partire dagli anni Novanta, hanno aperto uno squarcio e al di là di quella crepa, gli abitanti di Borgo Vittoria hanno scoperto di essere circondati dal resto della città. I quartieri si sono come riabbracciati e, di colpo, bastava attraversare la strada per spostarsi dall’uno all’altro.

Le rotonde creavano nuovi raccordi, le passerelle si slanciavano in sopraelevazione, vestendosi di arbusti mediterranei, murales e adolescenti scatenati sullo skateboard o ai tavoli da ping pong. Al posto dell’odore di pelle, si diffondeva quello del pane flagrante delle pasticcerie che prendevano il posto delle case occupate. Così, dopo l’apertura della Spina Reale verso Venaria, è stata la volta di scoprire la poesia graffiante delle architetture postindustriali di Parco Dora e di allungare lo sguardo verso Barriera con l’apertura di Corso Venezia. Ora Borgo Vittoria è diventato un campo aperto di possibilità, i cui confini sono segnati dai progetti di rigenerazione urbana tra la SNOS Gallery, l’hub dedicato al cibo alle ex Officine Savigliano, e le botteghe artigiane che aspettano di essere aperte in mezzo alle rovine seicentesche della Cascina Fossata, stagliate contro i nuovissimi spazi architettonici dei coworking e delle residenze.

La famiglia di Paola, ad esempio, è stata una delle prime ad investire su questa trasformazione, trasferendosi dalla bottega in centro città ai grandi spazi industriali del Vitaly Park, ex Media Village delle Olimpiadi del 2006 ancora sottoutilizzato. All’interno del laboratorio, traboccante di rotoli di carta colorati, vernici e presse, il lavoro è organizzato come in un open space, in modo che tutte le fasi di produzione avvengano simultaneamente in cerchio. Nello spazio di lavoro, come in quello urbano, siano banditi i muri che separano le persone!

Chiunque abbia abitato negli anni la Bottega Fagnola ha speso una vita a prendersi cura dei libri, a rilegarli per tenere uniti brandelli di sapere, testimonianze di ciò che fu o pagine bianche in cui qualcuno scriverà il futuro. Tutti i giorni insieme a quelle pagine, si ricuce un pezzo di città, viaggiando continuamente dal negozio rimasto nella Contrada dei Guardinfanti agli stabilimenti di via Orvieto, avviando collaborazioni con i musei, gli istituti d’arte o i progetti d’innovazione come il Print Club, tracciando nuovi percorsi e immaginari urbani che diventano collane ed edizioni d’arte.  

È del tutto probabile che anche voi sarete passati mille volte distrattamente accanto al loro laboratorio, ora che non c’è più il ponte del treno e in pochi minuti da Corso Principe Oddone si schizza via anche in bici fino in Piazza Statuto, ma il lieto fine per quei quartieri della città che stendono ponti per ricongiungersi è in parte ancora da scrivere e l’inchiostro è nelle nostre mani.

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Illustrazione di Cecilia Campironi

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