Migranti di città

*Liberamento ispirato dai racconti di Francesco Brundtland (La Rocca)
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Fsssssss… Sta-dam…. Beeeeeep… Sta-dam… Tu-dum tu-dum… Dliiiin

Sbuffa, lascia entrare, avvisa, si richiude, parte e fila via che è un piacere! Poi è costretto a ripetere con voce puntuale e sempre uguale « Prossima fermata… », in modo che qualcuno possa suonare ancora quel campanello penetrante, per avvisare che ha urgenza di scendere. Il 13, vanto della rete urbana torinese, ha decenni di carriera “ai fanali” e conosce bene le sue responsabilità. Sa che deve essere preciso, non mancare un appuntamento, calare con gentilezza il predellino e, se per caso fa fracasso per qualche ingranaggio malmesso, sembra quasi vergognarsene. È un tram consapevole della sua storia, che non ha mai cambiato il suo percorso: Piazza Campanella – Piazza Gran Madre di Dio.

E’ orgoglioso di essere per i suoi passeggeri un porto sicuro, in cui trovare riparo dalla pioggia, leggere un buon libro, rispondere ad un sorriso che ti fa dimenticare per un attimo l’ufficio. Elegantissimo nel suo storico verde bottiglia, anche se alcuni sono più affezionati al suo abito arancione, si sente a disagio quando viene temporaneamente trasformato in autobus per la manutenzione delle rotaie. In quei casi, lo si vede avanzare leggermente goffo e appesantito; eppure, in qualunque versione si presenti, arriva sempre rassicurante, un po’ infastidito ma anche paziente con qualche ritardatario o con chi attacca immediatamente a lamentarsi. Per lo più, ha piacere di ascoltare le migliaia di storie che lo riempiono incessantemente. Alcune sono sinceramente incredibili, mentre altre restano interrotte sul più bello! « Ciao ciao, è la mia, devo scappare!… Poi ti racconto… », ma avviene quasi sempre altrove e lui si mangia i tergicristalli per la curiosità.

Probabilmente non avrebbe mai potuto immaginare perché Francesco lo prendesse così spesso da ragazzino… Per lui il 13 era la via d’accesso ad altri mondi, ai punti più remoti della città che altrimenti raggiungeva solo la domenica in macchina con i genitori. Dalla fermata di Piazza Risorgimento accanto a Cecchi, depositario della ricetta di farinata e pizza al padellino più buona della città, Francesco saliva d’un balzo i due scalini e correva ad accaparrarsi il posto in fondo a tutto nell’angolo, dove c’è il finestrino più grande e lì è sicuro che nessuno ti disturba. Attraversare la città a bordo del tram è un’esperienza che ha da farsi in solitaria. Cullati dallo sfrigolio delle rotaie, guardando fuori tutta via Po che si srotola davanti agli occhi e in alto il gioco dei cavi elettrici che si rincorrono contro il cielo. Può capitare di osservare dettagli che altrimenti non avresti mai notato: volte decorate, stemmi, guglie, statue che ti guardano dall’alto in basso.

A Borgo Campidoglio il paesaggio è differente, le casette sono basse e si sa sempre chi le abita. Il mondo si divide distintamente in due fazioni: gli amici dei giardinetti davanti a Il Magazzino di Gilgamesh (Piazza Moncenisio) o i bulli del Santus. Aprendo un portone, si ha spesso la sensazione di trovarsi improvvisamente all’interno di una grangia, con le abitazioni da un lato e i depositi per cereali e fieno dall’altro. Fino all’inizio del Novecento si può dire che a Corso Tassoni finisse la città per lasciare spazio alla campagna. Subito di seguito, era abbastanza strano attraversare San Donato con le sue fabbriche di birra, cioccolato e caramelle (Metzger, Venchi, Leone), un paese dei balocchi, una volta abitato da operai indaffarati ai grandi macchinari ed industriali riuniti intorno alle grandi scrivanie dei villini liberty poco più su. Si fa appena in tempo a gettare uno sguardo fugace al buffo cartello rosso di pericolo caduta neve, circoscritto a solo due numeri civici ben precisi di via Cibrario, e poi ecco che il centro si dischiude in tutta la sua monumentalità.

Il Ponte Vittorio Emanuele I, per un ragazzino, può trasformarsi nella via d’accesso ad un mondo remoto. Di fatto costituisce l’altro termine della città, che dal piatto reticolato di strade del centro sguiscia via nella collina come un serpentello. Per il gusto di tornare ad attraversare il confine segnato dal fiume ci si può perfino dimenticare di scendere al capolinea. Nelle giornate più terse, però, è d’obbligo salire al Monte dei Cappuccini e godersi la vista migliore di Torino dal belvedere del Museo della Montagna. Tutto ha il sapore di sconfinamento, di esplorazione, del brivido di sentirsi esposti all’imprevisto. Migranti nella propria città, viaggiatori solitari nel tempo e nello spazio.

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Illustrazione di Cecilia Campironi

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