Flâneurie e cimiteri

*Liberamente ispirato ai racconti di Gabriele Pino
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Il paltò va indossato con maestria. Lo diceva fra sé e sé, guardandosi allo specchio di prima mattina. Innanzitutto il gesto non può essere frettoloso e nemmeno sciatto. Non si può guardare il cellulare per controllare con narcisismo distratto se è arrivato un like in più… Col paltò è tutta un’altra cosa; bisogna fermarsi per un momento, far calzare bene la camicia, trattenere i polsini, infilare le braccia e poi con un unico movimento delle spalle, ampio, calmo e calibrato, tirarlo su e aggiustare il bavero.

Ciò a cui si viene preparati con questo microscopico rito è una riconquistata consapevolezza di sé, un dondolio rassicurante della stoffa all’altezza dei polpacci mentre si cammina, la certezza di indossare un capo eterno. Non si può essere in imbarazzo all’interno della sua confortante fodera di seta, in nessun caso è ipotizzabile sentirsi a disagio. Mentre al bar davanti alla stazione beveva l’ultimo sorso di cappuccino fumante, si guardava intorno, quasi aspettando che un cameriere dal tono di voce impeccabile, annusando l’aria frizzantina, gli dimostrasse complicità dicendogli:
« Giornata perfetta, Sir, per una passeggiata… al Cimitero ».

Gabriele avrebbe sorriso, avrebbe inforcato gli spallacci dello zaino e si sarebbe messo ad aspettare la partenza del 68, che lo portava come sempre dritto al Monumentale. Infatti, così fece. Tutte quelle ritrosie, gli sguardi sbigottiti e le domande incuriosite sulle sue insolite camminate erano per lui incomprensibili. Trovava nei cimiteri qualcosa di rassicurante. Probabilmente comprendeva che in quel luogo non solo si annullava ogni affanno, ma anche ogni necessità di schermirsi. Tutto risulta chiaro per quello che è, nella sua crudezza presente: si condivide la terra, si torna da dove si è partiti. Ogni cosa è mescolata, difficile dire quale sia il confine tra le anime.

Al Monumentale di Torino tutto questo è ancora più evidente. A dispetto della magnificenza di alcuni mausolei, non esiste più memoria di chi fossero né gli uni né gli altri. Ci si avvicina ad un complesso statuario pregiatissimo, ma avvicinandosi all’epigrafe, il nome del suo inquilino non fa tornare alla mente alcuna impresa gloriosa. La competizione è un vezzo da vivi, poi si ritorna tutti uguali. A Gabriele piace immaginare che magari, di notte, i dodici chilometri di porticato si accendano a festa e la pianta ottagonale diventi un giardino dove ritrovarsi per due chiacchiere sui tempi andati. Così la famiglia dei Conti di Barolo invita per il tè i coniugi Dal Pozzo, il Maresciallo Cognetti invita a ballare la vedova Donat e i viali alberati d’inizio Ottocento acquistano una piacevole aria frivola da sera di fine estate.

Di giorno, invece, tutto torna al silenzio per consentire ai visitatori di concentrarsi e perdersi nei suoi percorsi labirintici… a piedi, ma anche in bicicletta! Per Gabriele non esiste posto migliore per elaborare nuovi progetti. Da Massimo D’Azeglio a Francesco Cirio, da Primo Levi a Silvio Pellico, da Rita Levi Montalcini a Fred Buscaglione si concentrano in un solo luogo così tante vite straordinarie, che può capitare di sentirsi accuditi da tutta quell’esperienza. E il paltò, come abbiamo detto, fa sempre la sua figura, anche al cospetto di tanto illustri interlocutori.

Poi via Catania accompagna il raccoglimento ancora per qualche metro, ma impiega poco a riportare immediatamente il flâneur cimiteriale al brusio della vita, trasformandosi nel nuovo quartiere universitario intorno al Campus Einaudi, in una delle zone più fervide di Torino per locali e laboratori artigianali. Si può dire che tra la Dora Riparia e il Parco della Colletta si trovino ad essere racchiuse la spensieratezza e la gravità dell’intero ciclo di una vita.

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Illustrazione di Cecilia Campironi

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