Necessità aguzza l’ingegno

*Liberamente tratto dai racconti di Alessandra Ochetti
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Questa è una storia che si scrive da decenni all’ombra dello stesso albero di fico, accarezzati dal profumo delle rose centenarie che hanno riempito gli occhi di almeno tre generazioni nei pomeriggi tiepidi di maggio.
Schiacciata tra i palazzi di più recente costruzione, che fanno i gradassi con i loro quattro piani d’altezza, la casa di Gigin e Gina è sempre stata fiera delle piccole crepe sulle sue pareti, dei fregi e delle ringhiere decò, di quel sobrio color fumé che preparava alla sorpresa degli interni pieni di oggetti, piante, specchi, tovaglie, merletti.

Gigin era la nonna che aveva compreso meglio cosa significasse vivere, dava importanza ad ogni singola cosa, anche la più piccola, e sapeva ricavare gioia perfino da un bottone. Gina la guardava ogni tanto con un misto di complicità e rassegnazione. Lei non stava troppo lì a fantasticare, alzava gli occhi al cielo quando i bambini le riempivano il salotto di ritagli di cartone, ma sapeva fare di tutto e trovava soluzioni inattese alle sfide costruttive che le nipoti le ponevano.

Dalle scatole del mercato di Corso Racconigi o dalle pubblicità delle vecchie riviste, in un angolo dell’ingresso sorgevano interi supermercati. Se un maglione di lana si faceva liso e infeltrito, Gigin, di sera, si sedeva sulla poltrona e cominciava a disfarlo; le mani un po’ doloranti prendevano un’altra velocità quando arrotolavano il filo fino a formare un gomitolo. Poi consegnava alle piccole il frutto del suo paziente lavoro e osservava compiaciuta le nuove vite che quel filo colorato seguitava a prendere. “Necessità aguzza l’ingegno!” diceva sempre.

La soglia delle abitazioni di Borgo San Paolo è sempre stato un luogo d’inclusione, più che di separazione, di un’area privata. Gli ospiti della casa di Gigin e Gina ancora si meravigliano del fatto che si passi direttamente dal marciapiede al salotto… Come si può immaginare, però, era vero anche il contrario: la strada era un tutt’uno con la casa e a Natale le lunghe tavolate finivano sempre fuori dalla porta. Insomma l’ex-quartiere operaio è sempre stato una persona di famiglia e i parenti, si sa, non si abbandonano.

Alessandra non lo ha mai fatto, fin da ragazzina ha lottato perché le basse mura della palazzina rimanessero in piedi, anche quando ha chiuso “La Vincenzi”, come tutti la chiamavano in zona. Qualcuno aveva pensato di ricostruire tutto a nuovo, ma quell’incrocio di storie e umanità è stato più resistente di loro. Ora, al posto della fabbrica di liquori e sciroppi, resta una grande area vuota, proprio vicino alla biblioteca civica con la nastroteca, dove da ragazzini si andavano a cercare gli ultimi album in uscita. De “La Vincenzi” resta però il profumo di menta nel naso, che sale su, insieme alla musica di quei giorni, ovunque si gusti un bicchiere di sciroppo.

Sparse per tutto il quartiere, ci sono di sicuro altre storie come la nostra. La Palazzina Plevna, con la sua forma di nave, fa da ammiraglia ai piccoli gioielli urbani sopravvissuti alle varie trasformazioni. Nel dopoguerra, erano le fabbriche a dettare il ritmo delle architetture, come quello delle relazioni sociali. Poi hanno chiuso la Lancia, il cui grattacielo rimane a vegliare dall’alto su tutto il reticolato urbano come un gigante solitario, e la Chiribiri, dove era stato prodotto il primo aereo monoplano. Hanno trovato nuova collocazione le macchine e i caratteri tipografici prodotti dalla Nebiolo. Le Carceri si sono svuotate delle loro storie di solitudine e resistenza, la ferrovia sparita d’un tratto.

Borgo San Paolo ha mantenuto però la caratteristica di essere un’arteria, da motore economico della città a ponte urbanistico tra il centro e le periferie. Non a caso, se poi ci si spinge a seguire il richiamo dei grandi viali, Corso Vittorio Emanuele e Corso Castelfidardo, ci si affaccia su quella che tutti chiamiamo la Spina, una lunga colonna vertebrale stesa come il dorso di un dinosauro lungo tutta la città.

Non ci si accorge di passare in pochissimi passi dalnuovo polo culturale delle Officine Grandi Riparazioni alle sale del Politecnico di Torino. Così, può capitare l’avventura di ritrovarsi nel bel mezzo della mensa, assaliti da un’onda di energia e dal brulicare frettoloso degli studenti. Quasi sembra di vedere sulle loro teste i progetti in fase di preparazione. Alessandra ci va a prendere spesso il caffè e una buona dose di fiducia incondizionata sul futuro.

Gli anziani del quartiere, invece, passano dall’area verde Cenisia per una pausa sulla panchina con i sacchi della spesa, accanto a dove prima sorgeva il centro sociale Gabrio, e guardano perplessi tutte le novità. Poco più lontano, i nuovi abitanti provenienti dalle aree geografiche più varie riempiono le vetrine di caratteri orientali, bambù, draghi scolpiti nel legno. Lo spiedo dei kebab gira incessantemente a ricordare che nulla resta fermo, eppure in qualche modo puoi continuare a percepirlo uguale e confortante come un tempo. Nel cortile della casa di famiglia, ad esempio, sono sparite le aiuole all’italiana e la vasca di pesci rossi, ma a breve comparirà una casa sull’albero che sicuramente ne avrà da raccontare tra vent’anni. La dimensione di borgo è reale e Alessandra se ne sente accudita, l’ha scelta come sua isola di calore.

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Illustrazione di Cecilia Campironi

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